(Gabriele Pedrini) – È di poche ore fa la lettera del presidente libanese Michel Sleiman in cui sprona il parlamento a eleggere il proprio successore “per evitare i pericoli e i rischi dovuti alla non elezione di un presidente entro il 25 maggio”. La lettera di Sleiman giunge il giorno dopo (16 maggio) il quarto tentativo del parlamento libanese nell’esprimere il nome di chi andrà a occupare il palazzo presidenziale di Ba’abda per i prossimi sei anni. La prossima seduta dell’organo legislativo è fissata per martedì 22 maggio, ovvero tre giorni prima del fatidico 25 maggio. Questa è infatti l’imminente data in cui terminerà il mandato dell’attuale presidente della repubblica. Tuttavia, ad oggi, le forze coinvolte nel processo decisionale sembrano non essere ancora addivenute ad un accordo.
I negoziati per l’elezione del successore di Sleiman sono un perfetto esempio di come un’assemblea legislativa rappresenti non il momento della sovranità, bensì il momento della legittimazione formale, o – se vogliamo – della ratifica tout court. Infatti, la decisione sul futuro presidente della repubblica non sarà presa né all’interno del parlamento né, probabilmente, all’interno dei confini libanesi. Anzi, non è un segreto che non sarà nemmeno il frutto di un dialogo tra forze libanesi. Tutti gli osservatori e analisti, stampa compresa, ammettono tutto ciò con straordinaria naturalezza, quasi come fosse una prassi consolidata per tutte le faccende libanesi di una certa importanza. La rassegnata accettazione di questa prassi si scontra però con le dichiarazioni dei vari ambasciatori a Beirut – rappresentanti dei reali agenti decisionali – i quali rasentano l’inverosimile nel momento in cui recitano, come un mantra, che il futuro presidente della repubblica deve essere il frutto del dialogo nazionale libanese, senza interferenze esterne. Di contro, la stampa libanese, dai pro-8 marzo ai pro-14 marzo, attribuisce un ruolo determinante nella scelta del nuovo capo dello stato all’esito dei negoziati tra l’Iran e l’Arabia saudita, i due attori regionali più direttamente coinvolti e radicati nella scena politica, economica e militare libanese.
I nomi in lizza sono molteplici ma, realisticamente e salvo colpi di scena dell’ultim’ora, i papabili alla più alta carica istituzionale si contano sulle dita di una mano. Primo fra tutti il generale Michel Aoun, fondatore e leader di al-Tayyar al-Wataniy al-Hurr, storico politico libanese alleato di Hezbollah, col quale condivide l’appartenenza alla coalizione dell’8 marzo. Secondo Ghassan Saoud, giornalista del quotidiano libanese Al-Akhbar, un accordo onnicomprensivo tra Teheran a Riyad per una nuova fase della politica e delle istituzioni libanesi partirebbe proprio da una presidenza targata Aoun. L’accordo punterebbe a ripristinare un equilibrio interno nelle faccende governative, attraverso una formula che non preveda né vincitori né vinti; una fase consensuale dalla quale ripartire nel confronto-scontro all’interno dello scenario libanese. Se tuttavia l’accordo fosse limitato e circoscritto a pochi obiettivi, come ad esempio il ristabilimento della sicurezza e la lotta al terrorismo, il futuro presidente della repubblica sarebbe, quasi fisiologicamente, Jean Kahwaji, attuale capo delle forze armate libanesi. Al contrario, nell’ipotesi in cui l’accordo non vada a buon fine e prevalga la superiorità contrattuale iraniana, il politico di lunga data Jean Obeid, più volte ministro durante la Seconda repubblica, potrebbe avere la meglio, anche in virtù dei suoi buoni rapporti trasversali, ad eccezione delle Forze libanesi. Ma si tratta sempre di ipotesi.
La partita è dunque aperta ad ogni evoluzione. Il 22 maggio, a tre giorni dalla scadenza del mandato di Sleiman, sarà possibile capire se il parlamento potrà procedere all’elezione del presidente, ratificando un accordo preso fuori dal Libano, o se le potenze coinvolte necessiteranno di altro tempo per convergere su un nome condiviso. Ma, in questo caso, avranno solo tre giorni di tempo prima di rischiare un pericoloso vacuum istituzionale.
Foto: Manifesti per le strade di Beirut che chiedono ironicamente la rielezione dell’ex presidente libanese Fu’ad Shihab, 1958-64″.
Gabriele Pedrini (1982). Dottorando di ricerca in Storia e Istituzioni del Vicino Oriente all’Università di Cagliari, lavora su fonti in arabo per la propria tesi sulle teorie dell’autorità nel pensiero politico sciita contemporaneo. Ha vissuto per studio e ricerca a Damasco e Beirut. Attualmente è stagista presso l’Institute for Palestine Studies di Beirut.