L’infanzia negata: i bambini costretti a fare la guerra dei grandi


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(Annamaria Brancato) – Stando alle stime dell’ILO, International Labour Organization, sono decine di migliaia i bambini e le bambine che si trovano costretti a combattere in prima persona le guerre dei grandi.

In più di 17 Paesi nel mondo i bambini vengono arruolati, talvolta in eserciti regolari talvolta in milizie ribelli, per prendere parte direttamente alle azioni di combattimento o per svolgere mansioni di supporto (come messaggeri, spie etc). Non è raro che anche le bambine e le ragazze partecipino ai combattimenti e ne rimangano doppiamente vittime in quanto usate a fini sessuali.

Quasi sempre i ragazzini vengono costretti ad arruolarsi oppure, come sta avvenendo in Siria in questi giorni, vengono fatti avvicinare ai combattimenti con la promessa di ricevere un’educazione.
Altre volte i bambini non hanno scelta.
Dopo aver perso tutta la famiglia, ad esempio, l’unica soluzione è unirsi all’esercito o alle milizie armate. Proprio per questo è più facile reclutare bambini in contesti incerti, dove non si hanno punti sicuri e istituzioni salde e l’unica via per la sopravvivenza è rappresentata dalla lotta armata.

Inoltre, l’impiego di bambini nelle guerre ha i suoi vantaggi: non chiedono retribuzioni, diventano presto molto abili con le armi e possono essere indottrinati con maggiore facilità.

Per un ragazzo che fin da piccolo ha vissuto sulla propria pelle o su quella dei propri familiari le atrocità e le violenze di una guerra, sarà poi quasi scontato prendere la strada della violenza, anche come forma di vendetta e rivendicazione.

Le conseguenze sul piano fisico e psicologico sono terribili: a partire dalle mutilazioni, le infezioni, le malattie (compresa l’AIDS), per non parlare degli incubi, degli attacchi di panico e ansia causati dal contatto diretto con la morte e la distruzione.

A questo va aggiunta la difficoltà, una volta terminato il conflitto, di essere re-inseriti nel contesto sociale tradizionale. Infatti, i bambini non saranno più visti come esseri innocenti, ma come persone in grado di uccidere e infliggere sofferenza; vengono inoltre percepiti come membri potenzialmente pericolosi in situazioni di pericolo e stress, avendo meno capacità di autocontrollo.

Le ragazze soldato trovano più difficoltà a sposarsi e per vivere dopo il conflitto non è raro che diventino prostitute.

La partecipazione dei ragazzi alla guerra ha, inoltre, serie ripercussioni anche per chi non prende parte ai conflitti, ma che comunque viene sospettato di essere un potenziale nemico con il rischio che venga imprigionato o ucciso.

Come riportato anche sul sito del nostro Ministero degli Esteri, sezione “Cooperazione allo Sviluppo”, l’impiego di minori nelle guerre si inserisce nelle strategie delle cosiddette “nuove guerre” in cui le parti non mirano solamente a conquistare e a prevalere, ma anche a indebolire e umiliare la comunità rivale, attraverso l’uso dei suoi membri più deboli: donne, anziani e bambini.

L’ILO definisce, nella “Convenzione C182”, il reclutamento minorile alla stregua delle “peggiori forme di lavoro minorile” e in quanto tale, lo vieta. E’ inoltre significativo che uno degli Stati a non aver ancora ratificato la convenzione sia la Sierra Leone, stato africano che fino al 2002 fu protagonista di un feroce conflitto del quale pervenivano immagini di un esercito di ragazzi vittime del Fronte Patriottico Unito.

Ma i bambini, come ben si sa, non solo possono diventare parte attiva nei conflitti, ma sono anche le prime vittime. Il sito www.addameer.org, un’associazione che si batte per i diritti dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e palestinesi, dice che sono circa 196 i bambini rinchiusi nelle carceri israeliane, dei quali 27 sono sotto i 16 anni.

In un caso o nell’altro, vittime o carnefici, la guerra diventa lo strumento per fare la differenza fra bambini che meritano protezione e bambini che, invece, devono scontare già in tenera età la punizione del carcere. L’età dell’innocenza viene così violata una volta per tutte segnando l’intera crescita del bambino soldato che, con grandi difficoltà, avrà la possibilità di redimersi agli occhi del mondo da un gioco-colpa al quale non avrebbe voluto partecipare e del quale, probabilmente, non ne capisce le regole.

 

Anna Maria Brancato (1986). Laureata in Governance e Sistema Globale all’Università di Cagliari, con una tesi sulla condizione dei profughi palestinesi in Libano e, in particolare, nel campo profughi di Shatila, a Beirut, dove ha soggiornato per svolgere le sue ricerche.

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