L’Islam politico e i limiti della sua reale comprensione


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(Simona Planu) – In arabo wasat significa mezzo. Da questo termine provengono tutta una serie di parole che indicano l’attività di mediazione e coloro che si adoperano per realizzarla. La dicotomia Oriente e Occidente, condita dalla retorica del fondamentalismo islamico, rende quasi impossibile anche avvicinarsi a quel mezzo.

La minaccia dell’Isis, lo schierarsi con Bashar al Assad, con i ribelli o con entrambi. Le parole usate per scongiurare il pericolo alle porte dell’occidente confondono e aumentano le distanze.

Nella costruzione dello “scontro di civiltà”, l’Islam politico e il suo ruolo passano in secondo piano. Passa in secondo piano il ruolo di una dinastia Saudita intrisa di wahabismo, la caratterizzazione sciita della Repubblica Islamica di Iran, il peso politico dei Fratelli Musulmani di fede sunnita e quello degli attori politici sciiti.

Comprendere l’Islam politico è complicato.  E’ complicato perché il confronto con culture e modelli di pensiero altri implica, in primis, la conoscenza di se e della propria identità politica, sociale e culturale.

L’incontro con l’Islam politico significa considerare la lunga storia di colonizzazione, dominio e ingerenze. Una storia che ha portato alla nascita di gruppi politici alla ricerca di una propria identità e sistemi politici ibridi. È proprio per questi elementi che parlare di Islam politico non è solo complicato, ma anche scomodo.

Quando si parla di democrazie occidentali, in maniera quasi automatica si pensa a sistemi laici, perfettamente allineati sulla scissione tra Stato e Chiesa. I partiti conservatori anglo –americani e i partiti popolari dell’Europa Continentale raccontano un’altra storia. Sono infatti le profonde radici cristiane, della tradizione e della famiglia, quelle a cui si richiamano.

Affermare che Hezbollah, “il partito di Dio”, è un partito politico che segue le regole e logiche tipiche dei sistemi parlamentari occidentali è destabilizzante e non supporta la causa dello “scontro”. Come può un gruppo terroristico, seguendo la logica di chi non conosce l’Islam politico, far parte di un parlamento, democraticamente eletto?

Confrontarsi con l’Islam politico significa ammettere che, giustificando i bombardamenti sauditi in Yemen contro i “ribelli sciiti”, si legittima una monarchia che fa del Wahabismo la propria religione di stato. Perché il wahabismo non fa paura mentre la Repubblica Islamica dell’Iran si?

Confrontarsi con l’Islam politico vuol dire sforzarsi di comprendere che le divisioni settarie all’interno della comunità islamica spesso non coincidono con gli interessi di parte. Altrimenti non si spiegherebbe perché oggi, il governo egiziano del generale Abd al-Fattah Khalil al-Sisi, instauratosi con la repressione dei Fratelli Musulmani di fede sunnita, gode del sostegno incondizionato dell’Arabia Saudita.

La sfida nel mondo moderno non è quella di combattere il terrorismo, ma è combattere per quella linea di mezzo che si conquista con il confronto.

La vera sfida è quella di mettersi in discussione e considerare che quando si legge una critica sul sistema democratico, fatta sulla base della rappresentanza degli interessi particolari, l’autore potrebbe essere Norberto Bobbio o Muammar Gaddafi.

 

Simona Planu. Laureata in Relazioni Internazionali all’Università di Cagliari e specializzata in Aiuto Umanitario e Cooperazione internazionale all’Università La Sapienza di Roma. Nelle sue missioni in Bolivia e nella Striscia di Gaza si è occupata di Protezione e Diritti Umani.

 

 

 

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