Non lasciamo soli gli armeni


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(SIMONE ZOPPELLARO) – Da domenica 27 settembre si combatte in Karabakh, alle porte della nostra Europa. Una guerra che si trascina, strisciante, da oltre 25 anni, è tornata ad esplodere. Lo si chiamava un conflitto congelato, fino a poco tempo fa, uno scontro tenuto a basso profilo, dopo il cessate il fuoco del 1994 fra Armenia e Azerbaijan, che si contendono sin dagli ultimi anni dell’epoca sovietica questa terra. Non più: siamo alla guerra aperta. Impossibile avanzare stime esatte, in un mix di disinformazione e reticenze, ma i morti si contano a centinaia. Di congelato, orami, è rimasta sola la coscienza delle diplomazie europee, e di quella italiana in primis, incapaci ancora una volta (e la memoria torna subito alla ex-Jugoslavia) di mettere in pratica quei principi umanitari che, sulla carta, sarebbero alla base delle nostre democrazie.

Un attacco, quello dell’ultima settimana, a lungo pianificato dal regime autocratico dell’Azerbaijan con il supporto determinante della Turchia. Due potenti nemici che attanagliano uno stato di sì e no tre milioni di abitanti, facendo ricorso a qualsiasi arma, lecita e illecita, per prendere di mira gli armeni, la cui memoria, in questi giorni, corre inevitabilmente al genocidio del 1915. Aviazione, artiglieria, droni suicidi, e anche miliziani jihadisti provenienti dalla Siria, grazie al gentile interessamento di Erdogan, stanno mettendo a ferro e fuoco il Karabakh, i cui abitanti non chiedono altro che la pace. Da tanti, troppi anni.

Ma come si è giunti a questa nuova crisi? È un conflitto che affonda le sue radici nella storia. Ancora prima dell’epoca sovietica erano avvenuti pogrom di armeni in Karabakh. Violenze che si ripeteranno, ancora una volta, negli ultimi anni dell’URSS, quando gli armeni diedero vita a un movimento per la secessione del Karabakh dall’Azerbaijan, cui lo aveva assegnato Stalin, nonostante la bilancia demografica pendesse a netto favore degli armeni.

Si arrivò a una guerra che costò 30.000 morti, alla fine della quale gli armeni, vittoriosi, dichiararono l’indipendenza di una repubblica, il Nagorno-Karabakh, non riconosciuta da nessuno stato al mondo. In questa guerra, la minoranza azera del Karabakh fu costretta a fuggire, e si registrarono massacri di civili da entrambe le parti, fra cui quello di Khojaly, che costò la vita di centinaia di azeri. Oltre al Karabakh, per ragioni di sicurezza militare, altre sette piccole regioni circostanti furono strappate dagli armeni all’Azerbaijan.

Gli armeni del Karabakh, pur fra le continue violazioni del cessate il fuoco del 1994, hanno ricostruito questa regione con perseveranza, dando una base democratica al loro assetto istituzionale, nonostante l’inevitabile e massiccia presenza militare a tutti i livelli della società. Di fronte a loro un avversario, l’Azerbaijan che, forte delle sue risorse di gas e petrolio, ha instaurato una dittatura retta da una sola famiglia, quella degli Aliyev, quasi ininterrottamente dal 1969.

Oggi l’Armenia è sempre più sola. Fra corruzione e minacce, l’Azerbaijan ha creato una serie di rapporti, in Europa e in America, che danno mano libero alle sue violenze interne (contro oppositori e media) e esterne. Da parte sua, la Turchia, che si è gettata con tutto il suo peso politico e militare nel conflitto, punta a riaffermare il suo potere nella regione, facendo pendere la bilancia tutta a favore dell’Azerbaijan. La Russia, dal canto suo, nonostante ufficialmente alleata con l’Armenia, specula su questo conflitto vendendo armi anche al regime di Aliyev, approfittandone per mantenere forte la dipendenza della regione nei confronti di Mosca.

Se non si può mai, in nessun caso, fare distinzione fra le vittime di un conflitto (e in questi giorni, ancora una volta, si hanno da entrambe le parti), è giusto ricordare come oggi sia a rischio la sopravvivenza stessa della democrazia armena, uscita rafforzata dalla rivoluzione di velluto del 2018. Se è alle vittime, prima di tutto, che si deve guardare, e ad alla pace come bene supremo per tutte le popolazioni coinvolte, non si può ignorare come l’aggressione turco-azera di oggi richiami un passato di violenze e massacri che è nostro dovere morale scongiurare.

Simone Zoppellaro, giornalista, ha trascorso sei anni vivendo e lavorando fra l’Iran e l’Armenia. È autore di due volumi editi da Guerini e Associati: ‘Armenia oggi’ (2016) e ‘Il genocidio degli yazidi’ (2017). Collabora con la Fondazione Gariwo – La foresta dei Giusti e con l’Istituto Italiano di Cultura di Stoccarda, dove vive.

Foto di Simone Zoppellaro: Un soldato armeno in prima linea, a Mataghis, Karabakh, maggio 2016.

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