Il paradosso della dinamica demografica


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(Fabio Marullo) – La demografia, ossia la scienza che studia quantitativamente i fenomeni che riguardano la popolazione, sta diventando nel corso dei decenni l’argomento più critico sulle scrivanie dei leader mondiali. L’analisi prospettica della dinamica demografica mostra infatti con chiara evidenza scientifica l’emergere di due grandi problematiche che appaiono ad oggi senza una soluzione nel breve termine.

La prima riguarda la crescita impetuosa e dirompente della popolazione globale. L’analisi delle serie storiche non lascia nessun’altra interpretazione.

Nel 1800 gli abitanti sulla Terra erano all’incirca un milione, cento anni dopo grazie all’ondata di sviluppo sociale, tecnologico e sanitario portata dalla seconda rivoluzione industriale la popolazione è cresciuta del 60%. Ma la crescita drammatica è iniziata a partire dal 20esimo secolo quando la popolazione globale arriva rapidamente a 2 miliardi e mezzo di abitanti nel 1950 nonostante la crisi del ’29 e due guerre mondiali, a più di 4 miliardi nel 1980, a 6 miliardi e 100 milioni all’inizio del nuovo millennio fino a  raggiungere i 7 miliardi e mezzo al giorno d’oggi.

L’incremento della popolazione mondiale negli ultimi 15 anni, considerato in termini assoluti, è maggiore dell’incremento della popolazione umana dalla nascita dell’Homo Sapiens agli albori del XIX secolo. E le cose non cambieranno nei prossimi 80 anni. Il tasso di crescita demografico a livello globale sta lentamente diminuendo ma ciò non significa che la popolazione smetterà di crescere. Anzi le statistiche suggeriscono che nel 2100 la popolazione mondiale raggiungerà quota 11,2 miliardi di abitanti, un numero enorme.

L’India diventerà, già prima del 2030, la nazione più popolosa del Pianeta infrangendo il muro di un miliardo e mezzo di abitanti e paesi del sud-est asiatico come il Vietnam, la Thailandia, l’Indonesia e la Cambogia raggiungeranno  insieme  quota  700  milioni   di   abitanti   entro   15  anni. Ma il vero motore della crescita demografica globale sarà l’Africa Sub- Sahariana che, ad oggi, ha un tasso medio di fertilità vicino a 5 (ciò significa che in media ogni donna ha 5 figli). La popolazione totale del continente africano che era meno di 250 milioni nel 1950 raggiungerà nel 2050 un numero di abitanti vicino a 2 miliardi e mezzo; in altri termini per ogni cittadino africano    nel    1950,    cento    anni    dopo    vi    saranno    10    africani.

L’esempio più significativo di questa esplosione demografica è la Nigeria che, non a caso, nel 2011 è diventata la principale economia del continente superando Egitto e Sud Africa in termini di prodotto interno lordo.

Il paese che affaccia sul golfo di Guinea, nel 1950 contava 40 milioni di abitanti, oggi ha 182 milioni di cittadini, circa 24 città nigeriane superano 100 mila abitanti e i prospetti demografici riportano una crescita continua negli anni a venire fino a raggiungere i 700 milioni di abitanti entro il 2100, per intenderci, più della popolazione totale dell’Unione europea. Lagos, la città principale, conta oggi 14 milioni e mezzo di abitanti e le statistiche mostrano una crescita di popolazione di 85 abitanti all’ora che nei prossimi 15 anni porterà la metropoli a raddoppiare i cittadini.

Dobbiamo abituarci a considerare stati come la Nigeria, il Congo, la Tanzania e l’Etiopia come nuovi paesi emergenti con un’economia in sviluppo  ma anche con una crescente influenza politica regionale.

Questo trend globale ci condurrà ad una grave crisi secondo due aspetti: in primis la scarsità di risorse soprattutto energetiche e idriche e in secondo luogo la salvaguardia dell’ambiente e degli ecosistemi sempre più a rischio a causa del numero crescente di industrie, automobili, allevamenti e consumi domestici. È ragionevole ritenere infatti che l’India e le nuove economie emergenti dell’area pacifica e sub-sahariana seguiranno l’esempio della Cina che negli ultimi 20 anni ha quasi triplicato le emissioni di C02 ed è ora responsabile di un terzo dell’inquinamento globale.

La politica avrà un ruolo centrale nel cercare di arginare questi fenomeni attraverso la programmazione sistematica di investimenti a lungo termine nell’ambito della ricerca e dell’implementazione delle nuove tecnologie. Queste paesi però non posseggono le tecniche per limitare le emissioni e soprattutto non hanno alcuna intenzione di rallentare la loro crescita economica in nome di un problema globale causato nei secoli dalle nazioni occidentali. Tale scenario è particolarmente preoccupante poiché sembra impossibile trovare una soluzione politica al problema soprattutto dal momento che la principale economia al mondo è ancora l’unica nazione al insieme alla Somalia e all’Afghanistan a non aver ratificato il protocollo di Kyoto.

Il paradosso dell’intera questione demografica consiste nel fatto che se globalmente il problema è la crescita esplosiva e incontrollata della popolazione, localmente la problematica è diametralmente opposta: la stagnazione demografica.

Questa complicazione riguarda soprattutto i paesi dell’Europa centro- occidentale e il Giappone ma affligge meno intensamente anche le altre nazioni industrializzate. La questione è diventata prominente dopo la crisi economica globale del 2008 dal momento che essa ha causato un enorme deterioramento dei bilanci degli stati. Infatti quando una crisi bancaria colpisce un paese il costo per superarla è sempre gravoso per le finanze pubbliche dal momento che il governo si vede costretto a salvare le banche private dalla bancarotta per prevenire il collasso dell’intero sistema di approvvigionamento dei capitali. Tale spesa ha incrementato in modo drammatico i debiti pubblici dei paesi europei. Questo contesto di crisi finanziaria ha messo in evidenza il fenomeno della stagnazione e, quindi, dell’invecchiamento medio della popolazione.

Una persona in età lavorativa (tradizionalmente stabilita tra i 15 e i 65 anni) è un contributore netto del benessere del paese poiché con il suo lavoro produce PIL e gettito fiscale costituendo insieme agli altri occupati la prima fonte finanziaria dei governi. Al contrario un individuo al di fuori della fascia lavorativa è un beneficiario netto nei confronti dello stato poiché il governo ne paga l’istruzione oppure la pensione e, nel nostro ordinamento, la maggior parte delle spese mediche.

Uno studio della Banca mondiale mostra che tra il 1960 e il 2015 in Giappone la percentuale di cittadini con più di 65 anni è passata dal 6% al 26%, in Italia dal 9% al 22% e in Germania dal 12% al 21%. E questo schema si presume che continuerà nei prossimi 50 anni. Il Giappone infatti al giorno d’oggi ha  solo il 12% della popolazione sotto I 15 anni e l’Italia e la Germania solo il 15% ciò significa che ci saranno sempre meno nuovi lavoratori.

L’ISTAT nel suo rapporto annuale ha calcolato che per il 2056 la percentuale di popolazione in età lavorativa della penisola toccherà il suo minimo storico del 54,3%, ciò significa che senza disoccupazione solo un italiano su 2 avrà un impiego; e la situazione sarebbe ben peggiore se non ci fosse stato in questi anni un flusso consistente di giovani migranti provenienti dall’Africa che riescono a stento a mantenere costante la popolazione italiana scongiurando la decrescita demografica. Questo scenario con ogni probabilità porterà ad un continuo avanzamento dell’età pensionabile e probabilmente parte del sistema sanitario pubblico collasserà nel settore privato.

Tale contesto va comparato con quello di altri stati come il Niger e l’Angola dove la percentuale di popolazione sotto i 15 anni è rispettivamente del 50% e del 48%; tutti questi giovani uomini e donne diventeranno le nuove colonne portanti delle economie emergenti demograficamente più sane e potenti del vecchio continente.

 

Fonti: Worldometers, Climate Etc., World Bank

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