Reportage. Da Beirut a Damasco: così la capitale della Siria risponde al terrorismo


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(Alessandro Aramu – Damasco) – Soltanto otto mesi fa l’autostrada che da Beirut conduce a Damasco era considerata un viaggio dentro l’inferno della guerra siriana. L’incessante susseguirsi di posti di blocco (delle Forze di Sicurezza Libanesi e Siriane) rendeva assai complicata la percorrenza di questi 90 chilometri di asfalto che dividono le due capitali, così vicine e allo stesso tempo terribilmente lontane. Ci accompagna Jalal, l’autista di fiducia che da anni con la sua macchina porta i giornalisti di mezzo mondo dentro il cuore della Siria. Una tempesta di neve, dopo giorni di incessante pioggia, ci fa compagnia fino alla frontiera di Masnaa, ultima località prima di entrare in territorio siriano. Il controllo dei passaporti, il timbro di uscita e poi quella sbarra che si solleva e ci fa entrare nella “terra di nessuno”.

Qualche chilometro di strada deserta, con le montagne brulle che circondano questa striscia di strada che fa sempre una certa impressione a vederla così abbandonata. Jalal accelera, qualche minuto a grande velocità e arriviamo nell’ufficio visti. Siamo a Jdaidt Yabws. Da Damasco è arrivato il via libera: possiamo entrare nel paese. Nel caseggiato grigio, accolti dalle foto di Bashar al-Assad, consegniamo i nostri passaporti a un addetto. Un caffè e un saluto nella stanza dell’ufficiale dell’esercito di turno. Una stretta di mano per darci il benvenuto e ringraziarci per la nostra presenza in un paese che ha sete di verità, dopo anni di menzogne e di articoli scritti da corrispondenti che non hanno mai messo piede in Siria. C’è anche l’informazione per procura, non solo la guerra. Così vanno le cose.

Il timbro nel passaporto, un visto regolare e la certezza che questo è l’unico modo per essere sicuri in un paese dove un giornalista occidentale può avere le ore contate. Chi entra dalla Turchia fa una scelta diversa: decide di appoggiarsi ai gruppi armati, di affidarsi, nella migliore delle ipotesi, a bande di criminali o a terroristi senza scrupoli. Ma qui, da questa parte della Siria, c’è uno Stato che non ha mai smesso di funzionare, con servizi che vengono erogati ogni giorno e regole che ancora vengono rispettate. I terroristi sono lontani. Sempre più lontani, anche se la guerra è in corso tutto intorno.

La neve scende copiosa, al primo posto di blocco ci aspetta la macchina di Mahdi Dahlala, ex ministro dell’informazione siriana, un amico che abbiamo imparato a conoscere e a rispettare in Italia, dove, nel corso del Meeting del Centro Italo Arabo Assadakah sulle politiche nel Mediterraneo, ha raccontato come i terroristi hanno sconvolto una nazione che non costituiva una minaccia per nessuno. “Una Nazione – dice Dahlala – che oggi è costretta a subire un attacco dall’esterno, con oltre 20mila combattenti stranieri in arrivo da ottanta paesi. Non è una guerra civile, è una guerra contro il popolo siriano decisa altrove, con le mani insanguinate dell’Occidente, della Turchia, dell’Arabia Saudita e del Qatar. Sono loro che hanno armato i terroristi. Ora quei terroristi sono pronti a colpire dovunque”. Una stretta di mano con gli ufficiali del posto di blocco e poi dritti fino a Damasco.

Seguiamo la macchina di Dahlala. Da quel momento in poi non abbiamo più bisogno di mostrare il passaporto. Incrociamo il convoglio delle Nazioni Unite, l’inviato delle Nazioni Unite per la pace in Siria, Staffan de Mistura, ha incontrato il presidente Bashar al-Assad qualche ora prima. C’è grande fiducia in questo diplomatico che afferma che “qualsiasi soluzione della crisi siriana deve coinvolgere anche Assad”. La pace passa attraverso un nuovo ruolo per il Governo siriano, il pericolo del terrorismo non ammette tentennamenti da parte della comunità internazionale. De Mistura lo sa bene ed è per questo che incontrerà nuovamente il presidente siriano. La via del dialogo si rafforza, è convinzione comune che sia l’unico modo per sconfiggere le milizie armate e ridare dignità e pace a un paese che è affamato di vita e voglia di risollevarsi.

Un posto dopo l’altro, con Jalal che mette un cd di Julio Iglesias che canta in inglese. Canzoni romantiche. “Canzoni d’amore”, dice lui. E poi mima un ballo lento. La Siria è anche questo. È anche il volto pulito di questo ragazzo che da qualche anno fa avanti e indietro dalla Siria al Libano, un modo per guadagnare qualche centinaio di dollari. Pochi per vivere, quasi niente per chi oggi non ha più un lavoro. Il futuro è incerto, la speranza è che finisca presto questa guerra. Arriviamo alle porte di Damasco, l’aria è frizzante. Anzi euforica. Dal sud del paese arrivano buone notizie: l’esercito in pochi giorni ha conquistato quello che aveva perso in un anno. I terroristi di al Nusra (il braccio di Al Qaeda in Siria) sono in ritirata, decine di villaggi vengono riconquistati. Basta vedere la reazione della popolazione per capire quale sia il sollievo per essersi liberati dal gioco della violenza e della crudeltà. A Damasco non si parla d’altro: i terroristi sono in ritirata, costretti a trovare riparo in Israele, dove sono stati persino curati. Una battaglia che riapre nuovi scenari nelle Alture del Golan, occupate “dall’entità sionista”, come così viene definita da queste parti lo Stato Ebraico.

Ora le truppe di Damasco e di Tel Aviv sono le une davanti alle altre, senza il cuscinetto e la protezione assicurata per mesi dai terroristi di Jhabat al Nusra. È quello che temeva il premier Netanyahu e lo Stato Maggiore dell’Esercito israeliano. Ci accoglie una capitale caotica, con un traffico che tiene le macchine incolonnate per minuti.

I negozi sono aperti, le strade affollate, i ragazzi e le ragazze, malgrado il freddo e la neve, animano i caffè e i negozi in queste ultime ore della sera. Jalal mi guarda e mi dice: “Is good”. Si, è buono, rispondo. Jalal ride e mi dà una pacca sulla spalla. Seguiamo la macchina di Dahlala, ancora qualche chilometro prima di raggiungere uno degli alberghi utilizzati dalla stampa internazionale a Damasco. Fino a qualche mese fa muoversi all’interno del perimetro cittadino era complicato, le barriere, comprese quelle anti carro, come quelle poste a difesa dei luoghi sensibili, erano molte di più. La città è sicura come può esserlo una città che in ogni momento può essere colpita da un mortaio, da un missile o da un’autobomba.

I combattimenti sono lontani, anche se la linea del fronte di Jobar, alla periferia orientale della capitale, è a pochi chilometri. È lì che si combatte una battaglia feroce, dove le canzoni patriottiche suonano dagli altoparlanti per tenere il morale dei soldati alto. E il morale è davvero alto. Le ultime immagini dal fronte testimoniano nuove vittorie: alcuni “ribelli” si arrendono, altri chiedono pietà e chiedono di ritornare a una vita normale. Per altri l’unico destino è la morte. Strada per strada, isolato per isolato, caseggiato per caseggiato, l’esercito conquista terreno senza tregua. Jobar è il quartiere dei tunnel, doveva servire all’opposizione armata per conquistare Damasco. Ma i terroristi non hanno piegato questa città e in questa notte fredda e nevosa tutto acquista un nuovo sapore. (parte 1. Continua)

 

Alessandro Aramu (1970). Giornalista, direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013) e Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014). Fa parte del Centro Italo Arabo Assadakah ed è vicepresidente nazionale del Coordinamento Nazionale per la Pace in Siria.

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