Reportage. Kurdistan, un popolo che resiste


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Incontro con i combattenti armati che sfidano l’esercito turco tra le montagne della Turchia meridionale

(Roberto Mulas – Lice, Kurdistan) – A distanza di vent’anni la ferita di Lice, cittadina del Kurdistan turco meridionale non si è ancora rimarginata: tuttora in quest’area  non si trovano tanti corpi dei cittadini uccisi nei primi anni ’90 per mano del governo centrale durante la presidenza del Primo Ministro, Tansu Penbe Çiller (1993 – 1996). Il territorio curdo – distribuito tra Siria, Iraq, Iran e Turchia – ha subito un’ondata di violenze incommensurabili a causa della politica di repressione che da sempre questo popolo subisce in quanto minoranza etnica. Nei mandati governativi turchi le oppressioni sono proseguite costantemente ma solo in seguito al ‘cessate il fuoco’ del leader indiscusso Öcalan – che da 3 anni ha iniziato dal carcere in cui è agli arresti da 16 anni una trattativa di pace col governo centrale – la gente inizia a far ritorno in città.

Il perimetro urbano di Lice è circondato da caserme e da zone militari invalicabili ma grazie alla volontà della popolazione – insieme al BDP (Partito della Pace e della Democrazia), affiliato al PKK – si è potuti arrivare ad  un’ampia porzione di territorio completamente demilitarizzata, autogestita e difesa da combattenti armati. Ciò che di prezioso si può trovare in questa zona e nelle sue campagne – che solo i carri armati e gli elicotteri dell’esercito potrebbero occupare – non è di certo un tesoro materiale ma le tombe dei defunti caduti per la causa curda. Aspro e irto il raggiungimento dell’area cimiteriale è “visitabile” solo da chi conosce molto bene il territorio.

Parecchie tombe sono ancora vuote ma pronte per essere utilizzate, altre sono datate 1990 e 1991 riconducibili ai giorni in cui l’esercito turco, durante uno scontro armato con il PKK, uccise tredici guerriglieri, provocando un’autentica insurrezione popolare da parte dei curdi. Il governo turco – attraverso la cosiddetta Legge sullo Stato d’Emergenza – prese quindi la decisione di affidare al super-prefetto dei territori sudorientali poteri “straordinari”, che comportarono il trasferimento di giudici e militari nell’area e la distruzione sistematica di quasi 4000 villaggi, spingendo così le popolazioni agricole al trasferimento e all’urbanizzazione forzata. Ora chi accoglie i visitatori è uno stuolo di veri e propri giovani armati disposti a perdere la vita per difendere le tombe dei propri cari.

Ferat (primo dei 2 pseudonimi da qui in poi per proteggerne l’identità) ha 29 anni ed è un combattente. E’ uno dei tanti ragazzi presenti sulle montagne, in parecchi sono di avvicendamento e fanno la guardia.

«La nostra vita quotidiana è come quella di tutti. Noi però viviamo nella natura, seguendo le indicazioni dei partigiani. Ciò che cambia è solamente il nostro tono di voce, cerchiamo infatti di parlare sempre senza alzare i toni perché abbiamo un grande rispetto per i defunti».

Insieme a Ferat c’è Aştî , di 35 anni che da quando ne ha 15 «combatte e lotta contro il fascismo turco». Frequentano il PKK dall’infanzia e sono stati educati per diventare «partigiani», racconta. Secondo i due il «il capitalismo sta distruggendo la vita»  ed è proprio grazie alle idee del partito che è stato permesso loro di pensare ad una rinascita.

«Sappiamo di essere soli a voler combattere un gigante di questo tipo e gestire le nostre emozioni ci è difficile quando ci rendiamo conto di chi sia il nostro nemico».

La lista terroristica in cui è stato inserito il Partito dei Lavoratori «non ha valore reale» secondo i militanti. Si tratta di «una questione politica di facciata» perché «chi resiste contro l’ISIS non lotta per la propria etnia ma per i valori universali dell’uomo e della donna, senza guardare la razza» ed è esattamente quello che accade nei territori curdi: «si combatte lo stesso nemico che ha però un altro nome».

Per chi sceglie la via armata tra le montagne il cambiamento diventa radicale. Aştî  e Ferat hanno scelto di abbracciare le armi senza avvisare i loro cari ma nonostante ciò gli affetti restano immutati. Incontrano di rado i propri parenti ed amici e quando avviene è sempre con un čhai (tipico tè) in mano e tra «i martiri della resistenza» ossia a due passi dalle tombe. Resta ancora la speranza che tutto un giorno possa finire e veder finalmente la normalità che arriverà solo quando la «liberazione dei territori curdi sarà completa».

«Non può avere dubbi sulla libertà chi ne ha capito davvero il senso».

 

 

 

 

 

 

 

 

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