Riyadh in prima linea: cause e (in)successi del recente interventismo saudita


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(Giacomo Laconi) – Nell’ultimo decennio l’Arabia Saudita ha messo da parte il suo tradizionale approccio cauto e poco appariscente, per abbracciare una politica regionale interventista e muscolare. Molti osservatori internazionali hanno imputato questo cambio di rotta all’ascesa del principe ereditario Muhammad bin Salman. Sebbene quest’ultimo abbia certamente contribuito all’estroversione della politica regionale saudita, considerarlo il suo principale artefice è ingenuo e riduttivo.

La recente svolta interventista del regno ha, infatti, ragioni molto più profonde: essa è un tentativo di rispondere a quei fattori che negli ultimi decenni hanno drasticamente peggiorato la percezione saudita della propria sicurezza e stabilità. Tra questi vi è innanzitutto il deterioramento della special relationship con gli Stati Uniti. La storica alleanza, già in crisi negli anni Novanta e quasi sepolta dalle macerie delle Torri Gemelle, è stata ulteriormente indebolita dall’ambigua politica mediorientale di Obama. La volontà statunitense di disimpegnarsi in Medio Oriente, accertata dal mancato sostegno ai governi alleati dell’Egitto e del Bahrein nel 2011, e la firma del JCPOA del 2015, vista da Riyadh come premessa del riavvicinamento tra USA e Iran, hanno eroso le certezze saudite sulla protezione fornita tradizionalmente da Washington[1].

Un secondo fattore è l’escalation della rivalità con l’Iran. La tensione decennale tra i due Paesi ha come punto di svolta la rivoluzione khomeinista del 1979. Da allora Riyadh e Teheran si sono sfidate sul piano ideologico e geopolitico nel tentativo di acquisire un ruolo egemonico nel mondo arabo e in quello musulmano[2]. Il già citato arretramento statunitense e il caos post “Primavere arabe” hanno concesso a Teheran una maggiore libertà d’azione, portando così la rivalità saudo-iraniana ad un nuovo livello.

Il terzo e ultimo fattore sono le rivolte arabe del 2011. Queste hanno provocato turbolenze interne alla monarchia[3] e moltiplicato gli scenari di scontro con l’Iran. Le agitazioni della minoranza sciita, represse nel sangue, sono diventate il trait d’union tra le questioni interne ed esterne. Tra stabilità e sicurezza. Riyadh è infatti convinta che l’Iran utilizzi i suoi proxies e clientes per destabilizzare le aree interne e limitrofe ai confini della monarchia. Non è quindi un caso che la nuova politica regionale saudita abbia avuto la sua applicazione più decisa e muscolare proprio nei Paesi vicini come Bahrein e Yemen.

L’intervento saudita in Bahrein è avvenuto il 14 marzo 2011. Ufficialmente sotto l’ombrello del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), l’operazione è stata guidata da Riyadh con l’obiettivo di salvaguardare il potere della famiglia reale degli Al Khalifa, sunnita e alleata degli Al Saud, assediata dalle manifestazioni della popolazione sciita a Manama. Il successo dell’operazione ha permesso a Riyadh di ottenere la credibilità necessaria per proporsi come un alleato affidabile e imprescindibile per le altre monarchie del Golfo e per gli altri Paesi sunniti della regione[4]. Tra il 2011 e il 2014 si assiste infatti al rafforzamento della leadership saudita nel CCG e al miglioramento delle relazioni con Egitto, Marocco, Giordania, Tunisia e Sudan. L’intervento in Bahrein costituisce quindi il punto di partenza di un processo di consolidamento del blocco sunnita intorno a Riyadh.

Questa fase propulsiva viene condensata nella Coalizione a guida saudita che dal marzo 2015 avvia le operazioni in Yemen in funzione anti-Houthi[5], con la partecipazione di Bahrein, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Egitto, Marocco, Senegal e Sudan. Nelle speranze saudite, l’operazione Decisive Storm doveva essere una ambiziosa e vincente campagna militare in grado di attestare la forza della monarchia e assestare una spallata decisiva al competitor iraniano. Accanto alle aspirazioni di dominio regionale, l’operazione nasceva anche dalla necessità di mettere in sicurezza il confine meridionale e lo stretto di Bab el-Mandeb e dalla volontà dell’attuale principe ereditario Muhammad bin Salman di dimostrare le capacità e il coraggio per poter guidare la monarchia.

Le aspirazioni egemoniche saudite si sono però impantanate nelle sabbie mobili yemenite. Riyadh non solo non ha raggiunto nessuno degli obiettivi di cui sopra, ma ha mostrato tutte le sue debolezze e l’incapacità di operare su più fronti. Infatti, la campagna yemenita, altamente dispendiosa in termini di uomini e risorse, ha impedito di giocare un ruolo decisivo in altri teatri ben più importanti come quello siriano, dove Turchia e Qatar hanno preso le redini del fronte sunnita. Inoltre, le difficoltà incontrate sul campo hanno eroso la coalizione anti-Houthi e la violenza degli attacchi sauditi ha indebolito lo status del regno nel mondo arabo e in quello musulmano.

Nonostante rimanga uno degli attori più importanti del Medio Oriente, l’Arabia Saudita si trova oggi in una fase di affanno. Difficilmente Muhammad bin Salman rinuncerà alla sua vena avventuristica, eppure le difficoltà incontrate in Yemen dimostrano come l’Arabia Saudita non abbia le capacità e la forza per sostenere nel lungo periodo una politica regionale assertiva e interventista a come quella varata nel 2011.

[1] Robert, David, Più bellicosi, meno sicuri: i sauditi nello specchio yemenita, in Limes: rivista italiana di geopolitica, Arabia (non solo) Saudita, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, 2017.

[2] Mabon, Simon, Saudi Arabia and Iran: soft power rivalry in the Middle East, Londra, I.B.Tauris, 2016.

[3] Sul tema dell’opposizione interna al regno dopo le rivolte del 2011 si veda: Lacroix, Stéphane, Saudi Islamists and the Arab Spring, Londra, London School of Economics and Political Science, 2014.

[4] Steinberg, Guido, Leading the counter-revolution: Saudi Arabia and the Arab Spring, Berlino, Stiftung Wissenschaft und Politik, German Institute for International and Security Affairs, 2014

[5] Ardemagni, Eleonora, Yemen: regionalizzazione di una crisi interna, Osservatorio di Politica Internazionale, analisi n°78, novembre 2017.

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